Andria in Storia


Andria e la Preistoria

Le prime tracce di insediamenti nel territorio di Andria risalgono al neolitico, infatti, sono stati rinvenuti alcuni oggetti ovvero coltellini diossidiana ed armi litiche.
Nell'età successiva, nell' eneolitico, gli uomini abitavano alcune grotte scavate nel tufo.
Durante l'età del bronzo gli uomini iniziarono ad abitare in alcune costruzioni cilindriche dal tetto a cono simili ai trulli. Numerosi tumuli, sepolture costruite con pietre informi, sono stati rinvenuti in contrada S. Barbara, S. Lucia e Castel del Monte.
Nel 1000 a.C. vennero ad abitare i Peucezi
La nascita del primo agglomerato urbano viene fatta risalire alla seguente colonizzazione degli Ellenici
Vicino all'attuale Andria sorse Netium, città greca per lingua e civiltà, citata da Strabone nella Geografia Universale
Netium si erano rifugiati in cerca di riparo alcuni profughi scampati alla distruzione di Canne nel 216 a.C., durante la seconda guerra punica. Decenni dopo, Netium ebbe un declino e non rimasero che poche rovine dopo le lotte sociali tra Mario e Silla nell'88 a.C. Alcuni abitanti della città con molta probabilità si spostarono più a sud, sulla costa, dove fondarono Juve-Netium oNeo-Netium l'attuale Giovinazzo.
Sulla Tavola Peutingeriana viene indicata una città di nome Rudas, probabilmente la vecchia Netium greca, di sicuro una stazione sulla via Traiana. I successivi insediamenti alto-medievali dei Longobardi e dei Bizantini, sorsero vicino alle rovine della vecchia Netium
Si hanno notizie di 12 casali, forse in origine ville rustiche,che ebbero in gran parte nomi di santi (Sant'Andrea, San Martino, Santa Caterina, Casalino e San Ciriaco, che si trovavano all'interno delle successive mura cittadine, e San Candido, San Vittore, San Pietro, San Valentino, San Lizio, San Lorenzo, Borghello, Trimoggia e Cicaglia, che restarono all'esterno di esse).
Nel 44 d.C. San Pietro, nel suo viaggio verso Roma, evangelizzò Andria che nel 492 d.C. circa, divenne sede vescovile sotto papa Gelasio I
In un documento del 915, Andria viene citata come villaggio (locus) dipendente da Trani.


Andria e il Medioevo

Nel 1046, Andria fu sottratta al dominio bizantino da Pietro il Normanno, insieme a Trani e al resto del suo territorio e come altri centri (Barletta, Bisceglie e Corato) divenne una città fortificata, elevandola al rango di civitas, con dodici torri, tre porte e una rocca nel punto più alto.
Al figlio Pietro II venne riconosciuto il titolo di conte nel 1073. Ancora nell' XI secolo fu fondata sulle vicine alture delle Murge l'abbazia benedettina di Santa Maria del Monte.
Nel 1155 l'esercito siciliano di Guglielmo I di Sicilia fu decimato nei pressi di Andria dall'esercito bizantino di Manuele I di Bisanzio. In quella battaglia perse la vita, il conte di Andria Riccardo de Lingèvres, che fu ucciso sotto le mura della città.
L'ultimo dei conti normanni discendenti di Pietro fu il conte Ruggero, che combatté nel 1176 a Legnano con Federico Barbarossa.
Nel XIII secolo fu fedele al dominio svevo e fu residenza del re Federico II, che nei pressi fece costruire il celebre Castel del Monte eletto a Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO, sul sito della precedente abbazia benedettina normanna.
Federico II di ritorno dalla sesta crociata, fece scolpire sulla normanna porta Sant'Andrea la celebre frase:« Andria fidelis, nostri affixa medullis; absit, quod Federicus sit tui muneris iners, Andria, vale, felix omnisque gravaminos expers. ».
Ad Andria nacque suo figlio Corrado IV nel 1228, avuto con la moglie Jolanda di Brienne, regina di Gerusalemme, sepolta nella cripta della cattedrale di Andria, che morì appena sedicenne in seguito al parto.
Sotto il dominio angioino Andria fu data in dote a Beatrice, figlia di Carlo II d'Angiò e sposa di Bertrando del Balzo, conte di Montescaglioso, che risiedette nella città dal 1308 alla sua morte nel 1330. La città passò poi in eredità alla figlia Maria.
Ad Andria intanto Maria del Balzo vendette al padre Bertando la città. 
Il papa Clemente VI incaricò Bertrando, che era anche gran giustiziere del regno, di investigare sulla morte di Andrea d'Ungheria. 
Istituito il processo, Bertrando fece cadere la colpa su alcuni addetti alla casa reale escludendo le regina Giovanna I da qualsiasi responsabilità. Nel 1350 la città fu assediata e saccheggiata dalle forze di Luigi I d'Ungheria convinto della colpevolezza della regina Giovanna I.
In quei giorni un sacerdote, Oliviero Matusi, all'insaputa di tutti nascose il corpo di San Riccardo in un luogo sicuro all'interno della Cattedrale per far sì che gli Ungheresi non potessero trafugarlo. Il segreto fu tramandato per anni solo di padre in figlio da parenti del sacerdote.
Bertando del Balzo, che in occasione dell'assedio riparò ad Avignone presso Clemente VI, morì improvvisamente nel 1357 a Napoli ove si era recato per affari di stato. La sua salma fu tumulata nella Chiesa di San Domenico Maggiore di Napoli.
In quell'anno gli succedette Francesco I del Balzo, suo figlio, che ottenne il titolo ducale e la città. La moglie di Francesco I, Sveva Orsini fondò in quegli anni il convento di San Domenico.
Nel 1431 il ducato passò al nipote di Francesco I, Francesco II del Balzo. Nel 1438 venne rinvenuto il corpo del santo protettore della città, san Riccardo d'Inghilterra, che era andato disperso durante il precedente assedio: in memoria dell'episodio fu istituita una festa ("Fiera d'Aprile")che si tiene tuttora dopo ormai quasi 600 anni, dal 23 al 30 di aprile.
Nel 1453, Pirro, figlio di Francesco II del Balzo, sposò a Castel del Monte Maria Donata Orsini, cugina di Isabella, moglie del re Ferdinando D'Aragona.
Nel 1462 il principe di Taranto, Giannantonio Orsini, non avendo avuto quali alleati nella lotta contro Ferdinando D'Aragona, Francesco del Balzo e Pirro, assediò Andria. Non riuscendovi a penetrare, l'Orsini fece scavare una galleria che passasse sotto le mura della città, ma il duca Francesco II scoperta la notizia fece scavare anch'egli una galleria in senso contrario. I nemici furono tutti catturati e rilasciati. Dopo 49 giorni di assedio il duca di Andria viste le gravi condizioni del suo popolo si arrese e tornò la pace tra i del Balzo e gli Orsini.
Francesco II, cognato del re di Napoli Ferdinando I d'Aragona, ottenne il titolo di Gran Connestabile del Regno. Alla morte di Francesco II nel 1482, divenne duca il figlio Pirro del Balzo, il quale partecipò nel 1485 alla Congiura dei baroni per cui venne messo a morte.
Quando la figlia Isabella del Balzo sposò ad Andria Federico d'Aragona, portò il ducato alla casa reale e il marito lo governò fino al 1496, quando divenne re di Napoli.


Andria e l'età moderna


Nel 1503 nella piana fra Andria e Corato,precisamente in contrada S.Elia, si svolse la famosa Disfida di Barletta, che opponeva gli italiani capeggiati da Ettore Fieramosca ai francesi.
In mattinata i 13 cavalieri italiani pregarono nel cappellone della cattedrale. Dopo la conquista del regno di Napoli da parte del re di Spagna Ferdinando il Cattolico nel 1504, Andria venne assegnata al "Gran Capitano" Consalvo di Cordova e poi al nipote di questi, Fernando Consalvo II. Egli vendette la città nel 1552 a Fabrizio Carafa, conte di Ruvo e parente del papa Paolo IV, che sistemò splendidamente il Palazzo ducale. A questi succedette nel 1554 il figlio Antonio Carafa; la madre e il fratello, Vincenzo Carafa (che nel 1571 aveva partecipato alla battaglia di Lepanto), fecero edificare nel 1577 il convento dei Cappuccini. Al successore, Fabrizio II Carafa si deve la costruzione del convento dei Benedettini e della basilica di Santa Maria dei Miracoli, in seguito alla scoperta nel 1576 di un'icona miracolosa.
Nel secolo XVII, la città rimase sempre sotto il dominio dei Carafa, in continuo conflitto con il vescovo e il capitolo della Cattedrale, con il quale la famiglia divideva il possesso della maggior parte delle terre. Nel 1656 un'epidemia di peste ne decimò la popolazione e nel 1741 subì un'invasione di cavallette.
Nel 1797 la città ottenne di poter eleggere il proprio sindaco e nel 1799, al momento della Repubblica partenopea, fu assediata dall'esercito francese capitanato dal generale Jean-Baptiste Broussier e appoggiato dallo stesso conte Ettore Carafa. 
Si voleva annettere Andria alla Repubblica Partenopea, liberandola dal dominio Borbonico, ma la città rimase fedele ai Borboni. Nella battaglia, perirono circa 2000 persone da entrambe le parti. Successivamente, fallita l'idea della Repubblica, e mancata la rivoluzione, i Borboni fecero giustiziare i repubblicani napoletani di spicco, tra cui lo stesso Ettore Carafa ghigliottinato a Napoli il 4 settembre del 1799. Nel 1806 gli eredi dei Carafa vendettero il Palazzo ducale alla famiglia Spagnoletti Zeuli.
Per la sua fedeltà a Ferdinando IV ottenne il titolo di Città Regia. Sotto il governo napoleonico e i regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat fu abolito il sistema feudale e soppressi molti conventi, mentre vennero aumentati i diritti elettorali.
Nel 1818 la diocesi si allargava alle città di Canosa, Minervino Murge e Montemilone, mentre la città viveva un periodo di sviluppo demografico e si espandeva al di fuori della cinta muraria.

Andria e l'età contemporanea




Durante il Risorgimento vi ebbe sede la carbonara "Società degli Spettri" o "Tomba Centrale" e una sezione della Giovine Italia
Circa 100 uomini di Andria, guidati da Federico Priorelli e da Niccolò Montenegro, parteciparono alla spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi eletto in seguito Deputato del Regno presso il collegio elettorale di Andria. Dopo l'annessione al Regno d'Italia il territorio fu teatro di azioni di brigantaggio: nel 1865 vi fu fucilato il capo-brigante Riccardo Colasuonno ("il Ciucciariello").
L'abolizione del latifondo e la confisca dei beni ecclesiastici diede impulso alla formazione di una borghesia terriera, sviluppando le produzioni agricole specializzate e un fiorente artigianato. Anche la città si accrebbe, vi furono edificate dimore signorili per i ceti emergenti e vi sorsero due piccole banche locali e le sedi di diversi partiti politici. Grazie allo sviluppo economico, Andria non fu particolarmente toccata dal fenomeno dell'emigrazione.
Nel 1913, il primo maggio, ad Andria viene indetta dalle classi operaie la Festa del Lavoro. 
Da segnalare che il produttore cinematografico Cataldo Balducci presenta il documentario “Grandiosa manifestazione per il primo maggio 1913 ad Andria" (indetta dalle classi operaie) che riprende la festa in 7 quadri, e si può - così - vedere il corteo che percorre via Cavour, via Ettore Fieramosca, piazza Vittorio Emanuele, raggiunge via Garibaldi, la piazza ed il palazzo Municipale, Porta Sant’Andrea. Nel filmato appaiono il monumento a Federico II e il panorama della Città visto dal campanile di Via Carmine.
Circa 800 andriesi perirono durante il primo conflitto mondiale, questi furono ricordati nel Monumento ai Caduti all'interno del Parco della Rimembranza inaugurato nel 1930.
Quattro Podestà governarono Andria durante il Fascismo: Pasquale Cafaro, Ernesto Fuzio, l'Onorevole Consalvo Ceci e Marco Ieva. Durante il regime fascista alcuni terreni (Montegrosso, Trojanelli) vennero suddivisi tra i reduci della prima guerra mondiale. Dopo l'armistizio del 1943 la città subì devastazioni da parte dei tedeschi, fino all'arrivo delle truppe alleate.
Dopo la seconda guerra mondiale, nel marzo del 1946, il rifiuto di una ditta locale di assumere quattro reduci, scoppiò una rivolta contadina, che vide il sequestro di alcuni proprietari terrieri e l'erezione di barricate. Ci furono scontri cruenti con le forze dell'ordine e sembrò che fosse stato trovato un accordo: ma al momento del discorso che doveva tenere il celebre sindacalista Giuseppe Di Vittorio fu sparato un colpo d'arma da fuoco, facendo rinascere i disordini: fu assaltato il palazzo della famiglia Porro, grandi proprietari terrieri della città e vennero linciate due anziane sorelle (Carolina e Luisa Porro). In seguito a tali fatti fu inviato l'esercito che riuscì a sedare la rivolta con una dura repressione. Si manifestò in quel periodo una crisi economica in seguito alla quale diversi abitanti furono costretti ad emigrare.
A partire dagli anni cinquanta si ebbe una progressiva ripresa economica, favorita dall'inaugurazione nel 1965 della linea ferroviaria Bari Nord che metteva in comunicazione Bari con i comuni del nord della provincia.


Personalità storiche legate alla città di Andria




Federico II Hohenstaufen 

(Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250) fu re di Sicilia (come Federico I di Sicilia, dal 1198 al 1250), Duca di Svevia (come Federico VII di Svevia, dal 1212 al 1216), re di Germania (dal 1212 al 1220) e Imperatore del Sacro Romano Impero, e quindi Re dei Romani, (come Federico II del Sacro Romano Impero, eletto nel 1211, incoronato dapprima ad Aquisgrana nel 1215 e, successivamente, a Roma dal papa nel 1220), infine re di Gerusalemme (dal 1225 per matrimonio, auto-incoronatosi nella stessa Gerusalemme nel 1229).
Apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia.
Conosciuto con gli appellativi stupor mundi ("meraviglia o stupore del mondo") o puer Apuliae ("fanciullo di Puglia"), Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l'attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male.
Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volta ad unificare le terre e i popoli, ma fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale. 
Federico stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi. La sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica.
Uomo di straordinaria cultura ed energia, stabilì in Sicilia e nell'Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con una burocrazia efficiente. Federico II parlava sei lingue (latinosicilianotedesco,francesegreco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola Siciliana. La sua corte reale siciliana a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, ha visto il primo utilizzo della forma letteraria di una lingua romanza, il siciliano. La poesia che veniva prodotta dalla scuola ha avuto una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. La scuola e la sua poesia furono salutate con entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, ed anticiparono di almeno un secolo l'uso dell'idioma toscano come lingua d'elite letteraria d'Italia.
Federico condusse un'intensa attività legislativa: a Capua e a Catania nel 1220, a Messina nel 1221, a Melfi nel 1224, a Siracusa nel 1227 e a San Germano nel 1229, ma soltanto ad agosto del 1231, nel corso di una fastosa cerimonia tenutasi a Melfi, ne promulgò la raccolta organica ed armonizzata secondo le sue direttive, avvalendosi di un gruppo di giuristi quali Roffredo di Benevento, Pier delle Vigne, l'arcivescovo Giacomo di Capua ed Andrea Bonello da Barletta
Questo corpo organico, preso lungamente a modello come base per la fondazione di uno stato moderno, è passato alla storia col nome di Costituzioni di Melfi o Melfitane anche se il titolo originale Constitutiones Regni Utriusque Siciliae rende più esplicita la volontà di Federico di riorganizzare il suo stato, il Regno di Sicilia: quest'ultimo, infatti, fu ripartito in undici distretti territoriali detti giustizierati, poiché erano governati da funzionari di propria nomina, i giustizieri, che rispondevano del loro operato in campo amministrativo, penale e religioso ad un loro superiore, il maestro giustiziere, referente diretto dell'imperatore che stava al vertice di questa struttura gerarchica di tipo piramidale. Abolì i dazi interni ed i freni alle importazioni all'interno del suo impero.
Il 5 giugno 1224, all'età di trent'anni, Federico istituì con editto formale, a Napoli, la prima universitas studiorum statale e laica della storia d'Occidente, in contrapposizione all'ateneo di Bologna, nato come aggregazione privata di studenti e docenti e poi finito sotto il controllo papale. L'università, polarizzata intorno allo studium di diritto e retorica, contribuì all'affermazione di Napoli quale capitale della scienza giuridica. Napoli non era ancora la capitale del Regno, ma Federico la scelse per la sua posizione strategica ed il suo già forte ruolo di polo culturale ed intellettuale di quei tempi.
Contribuì a far nascere la letteratura italiana ed in questo senso ebbe importanza fondamentale la Scuola siciliana che ingentilì il volgare siculo con il provenzale, ed i cui moduli espressivi e tematiche dominanti furono successivamente ripresi dalla lirica della Scuola toscana. Gli sono inoltre attribuite quattro canzoni. Appassionato della cultura araba, fece tradurre molte opere da quella lingua e fu quasi sempre in ottimi rapporti con gli esponenti di quella cultura al punto da guadagnarsi il soprannome (fra i tanti) di "sultano battezzato".
Nella corte era presente un gruppo di poeti, per lo più funzionari, che scrivevano in volgare meridionale. Nella corte di Federico si costituì una scuola poetica siciliana al quale si deve l'invenzione di una nuova metrica, il sonetto.
Federico II, essendo un generoso mecenate, ospitò alla sua corte numerosi artisti che ebbero probabilmente modo di spostarsi con lui nei suoi soggiorni in Germania (a più riprese tra il 1212 e il 1226): ci fu infatti un contatto con le novità del gotico tedesco, che proprio in quegli anni produceva opere di rinnovato naturalismo come il Cavaliere di Bamberga del Duomo di Bamberga (ante 1237, alto 267 cm), dove era raffigurato un ritratto dell'Imperatore stesso riprendendo l'iconografia delle statue equestri antiche. Inoltre Federico II invitò nel sud-Italia i cistercensi già nel 1224, i quali diffusero il loro sobrio stile gotico nell'architettura (abbazie laziali di Fossanova e Casamari che probabilmente costituiscono i primi esempi di applicazione italiana dello stile gotico).
Oltre alla ricezione delle novità gotiche, Federico promosse anche attivamente il recupero di modelli classici, sia riusando opere antiche, sia facendone fare di nuove secondo i canoni romani: per esempio le monete auree da lui fatte coniare (gli augustali) presentano il suo ritratto idealizzato di profilo, e numerosi sono i rilievi che ricordano la ritrattistica imperiale romana (al già citato Duomo di Bamberga, alla distrutta Porta di Capua, eccetera). In queste opere si nota una robustezza che ricorda l'arte romana provinciale, una fluente plasticità, come nei realistici panneggi, e gli intenti ritrattistici. Tra i rilievi superstiti della Porta di Capua esiste anche un Busto di imperatore: se si trattasse delle vere fattezze del sovrano saremmo di fronte al primo ritratto pervenutoci dell'arte post-classica, un primato altrimenti stabilito dal Ritratto di Carlo d'Angiò di Arnolfo di Cambio.
La seconda corrente predominante all'epoca di Federico, dopo quella classicista, fu quella naturalistica
Lo stesso Federico II nel "De arte venandi cum avibus" scriveva come si dovesse rappresentare le cose che esistono così come sono (ea quae sunt sicut sunt), un suggerimento che si può per esempio riscontrare nell'originalissimo capitello attribuito a Bartolomeo da Foggia e conservato al Metropolitan Museum di New York (1229 circa). In questa opera quattro testine spuntano dagli angoli, ma la loro raffigurazione è così realistica (nelle scavature degli zigomi, nelle rughe, nelle imperfezioni fisiche) da sembrare un calco da maschera mortuaria.

I frequenti movimenti di Federico, seguito dalla corte e dagli artisti, permisero la diffusione di uno stile sovra regionale, con opere di sorprendente similarità stilistica anche in aree molto distanti, come testimoniano, per esempio, gli ingressi di alcuni castelli fredericiani: i leoni scolpiti nel settentrionale castello dell'Imperatore di Prato sono identici a quelli di Castel del Monte in Puglia. Nicola Pisano, citato nei documenti più antichi come Nicola de Apulia, probabilmente arrivò in Toscana proprio con Federico II, alla cui corte potrebbe aver trovato la sintesi tra gli stimoli classici e transalpini che caratterizzarono la sua rivoluzione figurativa.

La intensa attività politica e militare, l'innovazione portata nella sua legislazione del Regno di Sicilia, l'interesse per scienze e letteratura fecero di Federico un personaggio mitico, talvolta attirando una serie di leggende che in parte resistettero alla sua scomparsa. L'amicizia praticata nei confronti degli arabi (ebbe a lungo una Guardia personale costituita da guerrieri arabi, e lui stesso parlava correntemente tale lingua) unitamente alla lotta contro il papa Gregorio IX, che arrivò perfino a definirlo anticipatore dell'Anticristo, fecero crescere attorno a lui un alone di mistero e di leggende.
I ghibellini vedevano in lui il Reparator Orbis, il sovrano illuminato che avrebbe punito i preti indegni e restaurato la purezza della Chiesa.
La propaganda guelfa invece lo definì come un ateo, autore del libro De tribus impostoribus o un eretico epicureo (Dante stesso lo citò nel girone degli eretici vicino a Farinata degli Uberti), o addirittura come un convertito all'Islam.
Fu forse il suo essere stato definito l'Anticristo (o il suo anticipatore, secondo la tradizione profetica derivata da Gioacchino da Fiore) a dare origine, dopo la sua morte, alla leggenda di una profezia secondo la quale egli sarebbe ritornato dopo mille anni. Federico fu definito l'Anticristo anche in virtù di una leggenda medievale che sosteneva che questo sarebbe nato dall'unione fra una vecchia monaca ed un frate: si diceva infatti che il padre Enrico VI in gioventù aveva pensato di intraprendere la vita monastica, mentre Costanza d'Altavilla aveva 40 anni quando partorì Federico e, prima del matrimonio, contratto all'età di 32 anni, sarebbe vissuta in un convento. Tale leggenda si collega anche al personaggio di Fra Pacifico, al secolo Guglielmo Divini, il quale, prima di divenire uno dei più intimi compagni di Francesco d'Assisi, fu cavalier servente di Costanza, alla quale, secondo alcune testi, fu legato da un amore segreto il cui frutto potrebbe essere stato proprio Federico.
Naturalmente la sua morte non poteva non dar origine a leggende. Si narra che una volta fu fatta all'Imperatore Federico II una profezia riguardante la sua morte: egli sarebbe deceduto in un paese contenente la parola "fiore". Per questo Federico II evitò di frequentare Florentia (Firenze), ma non sapeva che nell'agro dell'odierna Torremaggiore, si ergeva un borgo di origine bizantina, chiamato appunto Castel Fiorentino; le sue rovine, affioranti da una collina detta dello Sterparone (m. 205), ancora testimoniano la presenza di alcuni locali, di una torre di avvistamento e della Domus (palazzo nobiliare) all'interno della quale morì Federico il 13 dicembre 1250.
La stessa leggenda racconta pure che, secondo la profezia, egli non solo sarebbe morto appunto sub flore, ma anche nei pressi di una porta di ferro. Secondo la tradizione Federico, riavutosi leggermente dal torpore, chiese alle guardie che lo vegliavano dove si trovasse e dove portasse una porta chiusa che stava vedendo dal proprio letto. Quando la guardia gli rispose che si trovava a Castel Fiorentino e che quella porta, murata dall'altra parte, non era che un vecchio portone di ferro, l'imperatore sospirò: «Ecco che è giunta dunque la mia ora», ed entrò in agonia.
Federico fu chiamato ai suoi tempi Puer Apuliae (Fanciullo di Puglia), per la particolare predilezione che ebbe per questa regione (Apulia da intendersi come la Puglia e la Basilicata attuali o piuttosto l'intera Italia Meridionale, quindi il Regno di Sicilia).
Ma il nomignolo Puer Apuliae era nato con un intento spregiativo: gli fu attribuito dagli intellettuali tedeschi durante la lotta per il titolo imperiale con Ottone di Brunswick e potrebbe essere tradotto come ragazzino dell'Italia meridionale, contrapposto al maturo cavaliere dei guelfi.   








Ettore Carafa 

duca di Andria e conte di Ruvo, nacque ad Andria il 29 dicembre del 1767. Trascorse l'infanzia nella residenza ducale, appartenuta secoli prima ai nobili feudatari Del Balzo, che dominarono Andria finché uno di loro, partecipando alla congiura dei Borboni, non venne decapitato a Napoli, stessa sorte che capitò a lui.
Nel 1795 fu arrestato con l'accusa di cospirazione.
Nel 1799 aderì alle idee rivoluzionarie che portarono alla proclamazione della Repubblica Napoletana, ed ebbe l'incarico, con il grado di colonnello, di recarsi in Puglia, vista la conoscenza personale di quei luoghi.
Guidò l'assedio della sua città natia, Andria, che si schierò con i Borboni, in quanto la si voleva annettere alla Repubblica Partenopea. Dopo essersi portato solo a cavallo fin sotto le mura di Andria per parlare con gli abitanti, e dopo essere corrisposto a colpi di fucilate dai cittadini, ordino l'assedio condotto insieme al generale Jean-Baptiste Broussier e con l'appoggio dell'esercito francese. Nella battaglia, perirono circa 2000 persone da entrambe le parti.
Dopo la battaglia di Andria, fu inviato a Pescara a presidiare la città, dove fu catturato e tradotto a Napoli in catene. Mancata la rivoluzione, i Borboni fecero giustiziare i repubblicani napoletani di spicco, tra cui lo stesso Ettore Carafa ghigliottinato a Napoli il 4 settembre del 1799.



Onofrio Jannuzzi 

(Andria, 1º novembre 1902 – Roma, 19 maggio 1969) è stato un politico e avvocato italiano, senatore dalla prima alla quinta legislatura repubblicana.
Dopo essersi laureato in giurisprudenza all'Università di Roma, esercitò la professione di avvocato a Roma fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Verso il termine del conflitto, fu nominato commissario al comune di Andria dal 1944 al 1945, iniziando così la carriera politica.
Il 18 aprile 1948 venne eletto senatore e riconfermato nelle quattro successive legislature.
Fu sottosegretario alla Difesa nel settimo governo De Gasperi dal 27 luglio 1951 al 17 luglio 1953, nonché sindaco della città di Andria dal 1952 al 1956 e nel 1967.
Morì improvvisamente a Roma nel 1969.




Luisa e Carolina Porro


Le sorelle Porro, Luisa, Stefania, Vincenza e Carolina, ricche proprietarie terriere, vengono ricordate come donne di Chiesa e preghiera. A loro si devono numerose elargizioni in beneficenza. Esse furono artefici, fra l'altro, di una donazione di oltre 500.000 lire ai Salesiani per l'acquisto e costruzione dell'Oratorio Don Bosco, ancora oggi presente al centro di Andria e frequentato dai giovani andriesi. Nubili, venivano anche chiamate le «Signorine Porro». Durante i processi giudiziari che seguirono l'eccidio, le due sorelle sopravvissute, Stefania e Vincenza, si pronunciarono davanti al giudice con queste parole: "Non non riconosciamo nessuno di questi di imputati. Noi abbiamo perdonato". Patrocinatore nel processo, nonché di loro pro-cugino, fu l'Avv. Onofrio Jannuzzi, Senatore della Repubblica e Sindaco di Andria.




Per capire come e perché furono uccise le sorelle Porro, viene riportata la testimonianza di Vincenzo Fattibene, andriese, autore della pubblicazione "In politica e amministrazione - 50 anni al servizio della mia Città":
"Il pomeriggio del 7 marzo '46, Giuseppe Di Vittorio doveva tenere un comizio in piazza Municipio con l'intento dichiarato di pacificare gli animi. La piazza era gremita di compagni che aspettavano di ascoltare la parola del noto sindacalista. Uno sconosciuto, senza prevedere le conseguenze, sparò dal terrazzo accanto a quello del palazzo Porro, un colpo di pistola in aria. Fu il segnale della rivolta. Le poche forze dell'ordine furono fatte prigioniere, si temeva per la loro vita (furono liberate grazie all'intervento personale del vescovo Giuseppe Di Donna). 
In via Ferrucci furono innalzate barricate ed istituiti posti di blocco per impedire l'ingresso in città delle forze dell'ordine provenienti da Barletta. Il palazzo Porro, sito proprio di fronte al Municipio, fu incendiato, saccheggiato e gli occupanti furono trascinati in strada. 
Le sorelle Porro furono trucidate e i loro corpi abbandonati sul marciapiedi, vicino all'armeria Giannotti di via Bovio."

Già dal 6 marzo alcuni individui si presentarono al loro palazzo in piazza Municipio per rovistare i loro appartamenti e quello del loro inquilino Francesco Ciriello, direttore della Banca d’Andria, in cerca di armi e persone. Era il segnale che qualcuno aveva sparso dicerie nei loro riguardi. 
Il pomeriggio, del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, invece, si venne a sapere che l’onorevole Giuseppe di Vittorio, segretario della confederazione generale del lavoro, doveva tenere un comizio proprio nei pressi della loro abitazione per invitare i contadini andriesi a tenere la calma. 
Luisa, Stefania, Carolina e Vincenzina, pur intimorite per l’ennesimo comizio che, visto l’evolversi della situazione incandescente di una buona parte dei braccianti andriesi e, più che altro, per l’oscura e misteriosa visita dei cinquanta contestatori del pomeriggio precedente che cercavano armi che mai loro avrebbero potuto possedere, presero le due valigie che avevano preparato con i loro beni più cari e scesero al piano terra per dedicarsi, con i Ciriello, i portinai e la domestica, nella guardiola del loro palazzo, alla recita di un rosaio. 
Erano passate da qualche minuto le ore 20 quando, ad un tratto, un colpo d’arma da fuoco tuonò nelle tempie della scioccata folla e della compagnia che pregava in portineria. Da quel momento al grido “hanno sparato dal palazzo delle sorelle Porro”, iniziò il macabro eccidio. 
Francesco Ciriello, Stefania e Vincenzina Porro, nonostante le violenze scamparono la morte, invece, per Luisa e Carolina non ci fu nulla da fare. Furono afferrate in via San Mauro e spinte attraverso l’androne del loro palazzo prima in piazza Municipio e poi trascinate per i capelli in via Bovio: “ammazzatele, ammazzatele che hanno le bombe nel petto” gridavano i rivoltosi con veemenza. Uno di loro con una gruccia le colpiva senza ritegno e pietà. 
Carolina fu uccisa da un esagitato con un colpo di baionetta allo stomaco e pestata a sangue ripetutamente sul viso dai tacchi delle scarpe di una donna e Luisa, invece, dopo aver “benedetto” il suo carnefice mentre con la sua mano esile si liberava gli occhi dai capelli imbrattati di sangue, fu mandata a sbattere, con un violento spintone, tra ingiurie indicibili, contro lo spigolo della porta attigua all’armeria Giannotti. 
I corpi delle due sorelle Porro giacquero nel fango per tutta la notte, osservati a vista dai cinici agitatori, impedendo qualsiasi soccorso. Al mattino dell’8 marzo – giornata che oggi è dedicata alla festa delle donne – girava voce che i due dilaniati cadaveri sarebbero stati trascinati per le vie della città. Intervenne, finalmente, la forza pubblica su sollecitazione del vescovo Di Donna e i cadaveri, finalmente, vennero prelevati e trasportati al cimitero, tra un fragoroso e inaspettato applauso liberatorio.
Alle ore 11, una piazza Municipio gremita da uomini e donne di tutte le età, ascoltava il provato onorevole Giuseppe Di Vittorio il quale con toni fermi e chiari prometteva che il lavoro molto presto sarebbe arrivato e che, in ogni caso, l’ordine pubblico doveva assolutamente ritornare sovrano.



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